Nella settimana di #ioleggoperché parlare di libertà non può che far pensare innanzitutto ai tanti, troppi posti in cui il diritto allo studio è negato, è difficile, è parziale; non può che far pensare alle ragazze rapite in Nigeria da Boko Haram solo perché studiavano e delle quali non si sa più nulla; alle continue stragi di cristiani che ormai quotidianamente si stanno verificando in tutto il mondo; alla strage di Charlie Hebdo… e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.
Perché leggere, studiare, imparare vuole dire libertà e chi questa libertà la vuole negare, sopraffare, annullare non può che avere una sola speranza di farcela, di vincere: lasciare quanta più popolazione possibile nell’ignoranza.
La citazione di oggi è troppo lunga per farla entrare in un post it di 400 caratteri per cui la riporto integralmente qui sotto, ricordando che quando la lessi provai continuamente brividi che mi percorrevano l’intero corpo.
Venuto al mondo – Margaret Mazzantini
Il ragazzo ha gli occhi azzurri e sorride, dice è come sparare ai conigli, lo stesso. E io vedo il bambino blu. Gioca con lo slittino, lo trascina in salita tirandolo per la corda, è una bella fatica ogni volta, perchè scendere è un soffio, salire invece…..Però ne vale la pena. E’ una bella giornata di luce, c’è la neve fresca. Il bianco che ha coperto il nero. Il cecchino ha bevuto grappa di prugne, ha fumato, ha buttato in terra la cicca che non si è ancora spenta. Poi ha ripreso la sua vanga, il suo fucile. Sua madre un giorno lo ha messo al mondo, lo ha battezzato, il cecchino ha una croce al collo, crede nella divina trinità, quella della grande Serbia. Almeno così gli sembra di ricordare, perchè sono passati pochi mesi ma tutto è cambiato e lui non ricorda bene perchè è salito lassù in montagna con gli altri. Spara sulla sua città, sul suo quartiere. Alza il fucile, infila il suo occhio fermo e cerca….e gli piace cercare, gli dà una scossa che dal petto gli scende nella pancia, poi nei testicoli. Sceglie quella discesa, quel sentiero coperto di neve dove anche lui giocava da bambino. Ha nostalgia di quei giorni, della sua infanzia, come tutti gli uomini. Non è dispiaciuto, quando ha camminato nel fango per superare quel fiume marciando verso i monti sapeva che non sarebbe tornato. Ci sono altri bambini sulla discesa tra due stabili sventrati, l’edificio sulla sinistra era la scuola elementare che anche lui ha frequentato. Per un attimo gli torna in mente la maestra che spalmava la pasteta sul pane e gliene dava una fetta. E lui sorrideva, le diceva hvala. Gli piaceva quella maestra, non ricorda se era serba o mussulmana, ci pensa ma non se lo ricorda. La scuola adesso è uno scheletro, come la struttura di una palazzina mai finita a cui qualcuno ha dato fuoco. I bambini giocano, lui li ha visti arrivare, non li aspettava. Non sa mai cosa gli capiterà, dove si fermerà la sua attenzione, su quale bersaglio, su quale cilj. E’ una parola che gli piace cilj, perchè è il suo lavoro di tutti i giorni, perchè è una parola pulita. Uomo, donna, bambino, gli sembrano parole che sporcano la sua missione. I bambini sono bersagli piccoli, maleni ciljevi, e lui in genere non spara sui bersagli piccoli, si muovono troppo. Ma stamattina è molto facile, è un invito. I maleni ciljevi sembrano conigli sparsi sulla neve. Le loro madri li hanno lasciati uscire, non potevano tenere i bambini tutto il giorno all’umido dei rifugi, e magari volevano essere libere, fare il bucato, preparae una zuppa d’erba. Il cecchino cerca. I bambini sono ancora macchie sulla neve, piccole figure dai contorni imprecisi. Gira la manopola che regola il canocchiale del suo fucile di precisione. C’è pasta di neve, di pezzi di golf, di pezzi di volti. E’ troppo sopra, l’immagine è sgranata. Cerca il fuoco giusto, si avvicina, stringe…tira fuori dall’ignoto, dalla neve. I maleni ciljevi adesso sono bambini. Lui cammina un po’ con il suo canocchiale, fa qualche passo con loro, segue il gioco che fanno. Lo faceva anche lui, quel gioco, scivolava giù dentro una cassetta di plastica insieme a suo fratello. Una volta cadde contro una grossat pietra che spuntava dalla neve. Si chiede se c’è ancora, la cerca, la trova. Gli piace trovare segni della sua vita passata, anche se sa che non tornerà più. 9 Non prova nessuna emozione, è come riconoscere un territorio, per un cacciatore è importante. Si ferma su un bambino. Non sa perchè sceglie lui piuttosto che un altro. Forse perchè non ha il cappello, ha la fronte scoperta, e quando si volta gli vede il buco della nuca. Dovrei dirlo questo a Pietro? Lui nasceva e io pensavo alla nuca del bambino blu, la vedevo, era davanti a me, nel mirino di uno sniper. L’attaccatura dei capelli dove comincia la vita. Il mio cuore pulsa dentro quello del cecchino. Sono io che scelgo il bambino. Lo scelgo perchè ha la nuca scoperta e questi capelli corti, compatti, come una testa di pelo. Sono capelli che odorano. E il cecchino può sentire quell’odore. Anche lui da bambino aveva capelli così, spessi, induriti dal sudore, senza rumore. Il bambino sta muovendo gli ultimi passi della sua vita sulla neve, ride, ha le guance rosse, il fumo bianco del freddo, trascina lo slittino in salita. Il mirino sulla canna del fucile si muove con i passi del bambino, s’arrampica con lui sulla neve. Il cecchino non sa perchè gli è capitato questo lavoro, com’è andata esattamente. Sono state le circostanze. Ci sono sacchi di terra impilati nella neve, potrebbe spostare la mira e tirare in uno di quei sacchi, non farebbe per lui alcuna differenza. Il fatto è che per ogni bersaglio colpito riceve un bel premio in marchi, e lui di quel premio ha bisogno perchè la paga del soldato è bassa e lui vuole comperarsi una macchina, una Bmw con il tettuccio che si apre. Pensa a quella macchina, ai sedili neri, all’accendino nel cruscotto, pensa a quel vento che gli farà vivere i capelli. Il coniglio è un bambino, avanza con i suoi capelli a calotta, con la sua nuca. Il corpo del cecchino è incollato al fucile, sono un unico pezzo. E’ l’attimo dell’amplesso, del pene che s‘ indurisce meccanicamente. Non c’è nessuna volontà, solo quella del proiettile. E’ quella che agisce, il cecchino si lascia guidare dalla sua esperienza. Piega il dito, poi lo lascia. E’ un attimo pericoloso, il percorso silenzioso del proiettile nell’aria bianca. Come uno spermatozoo che cammina sotto la lente del microscopio. Potrebbe incontrare qualcosa, un ostacolo che gli devia il percorso. Questo attimo è il migliore. Non è esattamente di puro piacere, è anche doloroso, come un’eiaculazione troppo ritardata. Il petto prende il colpo del rinculo. L’aria è bianca. Il proiettile ha raggiunto la nuca, il bambino è caduto a faccia sotto. Gli altri scappano, lasciano gli slittini e corrono come conigli spaventati. Il cecchino torna sul luogo, gira intorno con la sua lente, butta un occhio sulle orme rimaste. Gli piace quel silenzio, quando controlla il suo lavoro, quando restano soli lui e il suo centro. Controlla il foro nella nuca, perfetto. Il bersaglio piccolo il maleni cilj è morto sul colpo, non è nemmeno scivolato un po’ sui gomiti. Il cecchino non ha bisogno di sprecare altri colpi per finirlo. Ora sorride, le guance accartocciate, gli occhi fermi perchè il cuore è morto. Passerà del tempo prima che vengano a prendere il bambino, lo sa. Aspetteranno che lui se ne vada, che finisca il suo turno. Ilvolto del bambino sta diventando blu nella neve. Il mozzicone che il cecchino ha buttato in terra è ancora acceso. Ogni tanto un giornalista si arrampica, gli dice spara che ti filmo mentre spari, e il cecchino spara per il giornalista. Poi fa l’intervista, le braccia conserte, la croce sulla divisa mimetica, il berretto nero. E’ come sparare ai conigli, sorride. Poi la crosta della faccia s’ indurisce e resta quel misero stupore, quello del diavolo che guarda se stesso.”